L’ultimo dei banchi a nascere fu, nel 1640, il Banco del Santissimo Salvatore. Esso fu costituito con fini speculativi (fu, infatti, l’unico degli otto istituti bancari napoletani a non avere vincoli con istituzioni pie), dai governatori della gabella della farina, che era stata «arrendata», ossia ceduta in garanzia ai creditori dello Stato.

Essi ottennero dal viceré l’autorizzazione ad aprire banco, asserendo che gli altri banchi pubblici fossero insufficienti alle numerose operazioni di riscossione e pagamenti da compiere. Il Banco del Salvatore, che all’inizio si limitò in effetti alle operazioni riguardanti la gestione della gabella, successivamente abbracciò anche quelle di deposito e di anticipazione su pegno. Non avendo alle spalle opere pie poggiò su basi finanziarie meno solide rispetto agli altri istituti.

La sua prima sede fu nel chiostro di Santa Maria di Monteverginella. Nel 1652, l’ente si trasferì presso la Chiesa dei SS. Filippo e Giacomo; poi, nel febbraio del 1699, passò nel palazzo di San Domenico Maggiore, acquistato per 18 mila ducati.

L’inizio del Settecento fu molto critico per le conseguenze della congiura del Principe di Macchia, quando il Banco del Salvatore solo con grandi sacrifici patrimoniali evitò il fallimento. Nonostante le alterne vicende economiche del secolo XVIII, il Banco riuscì a mantenere un buon rapporto tra circolazione cartacea e riserva metallica. La situazione del Banco andò peggiorando verso la fine del XVIII secolo. Nel 1806, salito sul trono di Napoli Giuseppe Bonaparte, il Banco di San di Giacomo divenne Banco di Regia Corte, mentre quelli della Pietà, dei Poveri, dello Spirito Santo e Sant’Eligio divennero le quattro casse di un nuovo ente denominato Banco dei Privati. I banchi del Popolo e del Salvatore vennero soppressi.